La villa di Livia e la pittura di giardino
È questo il titolo di un saggio di Salvatore Settis che accompagna il lettore alla scoperta delle splendide pitture di giardino del triclinio invernale della villa appartenuta a Livia, moglie di Augusto, situata sulla via Flaminia a nord di Roma, ad galinas albas (o delle Galline bianche) in località Prima Porta.
La grande sala sotterranea (5,90 × I1,70 metri) – le cui pareti furono per ragioni conservative staccate negli anni cinquanta del secolo scorso e restaurate e ricomposte nella loro integrità in questo ambiente fra i più suggestivi del museo – era interamente decorata da un ampio giardino aperto, una sorta di paradeisos dipinto, con una lussureggiante e variegata vegetazione sia ordinatamente sia disordinatamente composta di allori, palme, alberi da frutta come il melograno o la vite, piante rare e tantissime specie di fiori e di uccelli svolazzanti sullo sfondo luminoso di un cielo azzurro.
La pittura, a grandezza naturale, neppure agli angoli si interrompe; nessun elemento architettonico (pilastri o colonne che fossero prima) scandisce più lo scenario in senso longitudinale.
L’ “architettura di giardino” si articola invece su una doppia recinzione che corre tutt’intorno: in primo piano una staccionata di canne e rami di salice intrecciati che ci apre per consentire l’accesso al verde prato di una stretta passeggiata delimitata più in là da una balaustra in marmo che forma rientranze dominate da un albero isolato: un pino, un abete, un platano.
Si definisce così la posizione dell’osservatore e la profondità spaziale è suggerita da un’attentissima scalatura della resa di dettaglio.
La rappresentazione delle piante in primo piano è tanto minuta da consentire una precisa indagine botanica e ornitologica mentre diventa via via più sfumata e indistinta verso lo sfondo vago e mosso.
La parete viene dunque contraddetta, anzi negata, nello spazio magico dell’incanto pittorico e invita ancora oggi l’osservatore a sentirsi, mentre il vento piega le cime animate da volatili, nel bel mezzo del locus amoenus per eccellenza: il giardino.

È un paesaggio che non fa più da sfondo a scene principali ma è inventato e immaginato per cantare e racchiudere (in un hortus conclusus) il presente felice, il piacere di vivere e di godere della pace, dell’ordine, della giustizia riportati da Augusto con la vittoria sulle forze selvagge.
Una natura rigogliosa, ridente e rassicurante penetra subito anche all’interno delle mura di numerose domus vesuviane in concomitanza con il crescente valore accordato al peristilio rispetto all’atrio e con il crescente spazio destinato a giardino naturale con euripi e grotte-ninfeo.
Interessanti studi condotti di recente sugli autori antichi, sui dipinti e sui reperti botanici hanno consentito di ricostruire filologicamente a Pompei giardini e orti stagionali.
Come l’arte del giardinaggio (ars topiaria) si era trasformata in una vera e propria moda spesso mirata, nell’accurata ricerca di specie di forme e colori diversi, a sortire risultati di effetto artistico, così, in netta contrapposizione con le atmosfere chiuse e rarefatte delle ambientazioni di tipo teatrale caratteristiche del gusto pittorico precedente, a partire dall’età augustea le pareti fissano nelle due dimensioni luoghi ameni, talvolta ricchi anche di sculture, che evocano illusionisticamente colori, profumi e suoni come lo stornire di una rondine o lo zampillare dell’acqua dalle fontane.
Era nato un genere pittorico destinato a riscuotere grande fortuna, anche se non sarebbe stato mai più declinato con tanta freschezza. (N.G.)
Fonte: “Museo Nazionale Romano”, Soprintendenza Archeologica di Roma, a cura di Adriano La Regina, edizioni Electa 2007 pagina 52







